Perché i nostri vestiti finiscono in Cile?

Nel cuore del deserto di Atacama, in Cile, c’è una distesa impressionante di rifiuti tessili e vestiti, visibile anche dallo spazio.

Perché i nostri vestiti finiscono in Cile?

NNel cuore del deserto di Atacama, in Cile, c’è una distesa impressionante di rifiuti tessili, talmente vasta da essere visibile dallo spazio. Tra i capi ammassati si trovano magliette, jeans, abiti ancora con il cartellino attaccato. Una scena che sembra surreale, ma che racconta la realtà concreta e drammatica dell’industria della moda globale, e in particolare della fast fashion. Ma com’è possibile che abiti prodotti in Asia e venduti in Europa finiscano in discariche a cielo aperto dall’altra parte del mondo?

La catena globale della fast fashion

Il ciclo di vita di un capo d’abbigliamento comincia quasi sempre in Paesi come Cina o Bangladesh, dove viene prodotto a basso costo. Una volta giunto in Europa o negli Stati Uniti, viene venduto nei negozi o online. Tuttavia, non sempre questi vestiti raggiungono il consumatore finale in modo lineare. Secondo le stime della società McKinsey & Company, nel 2024 è stato restituito tra il 20% e il 30% dei capi acquistati su Internet, e circa il 20% di quelli acquistati in negozio. I resi, comodi per l’utente ma molto onerosi per l’ambiente, generano un’impronta di carbonio significativa: l’86% delle emissioni di un singolo pacco dipendono dal trasporto, e solo il 14% dall’imballaggio.

Greenpeace ha calcolato che un capo restituito può viaggiare per 100.000 km in meno di due mesi, attraversando fino a 14 paesi via nave, aereo e camion. Ma non tutti i capi resi o invenduti vengono ricollocati: alcuni, per ragioni economiche, finiscono direttamente tra i rifiuti. La riconfezione e la rivendita hanno un costo che molte aziende preferiscono evitare, scegliendo la via più economica dello smaltimento.

Perché proprio il Cile?

Nel deserto di Atacama arrivano ogni anno circa 60.000 tonnellate di abiti usati o invenduti. Una piccola parte viene rivenduta nei mercati locali o in altri Paesi sudamericani, ma la maggioranza finisce in discariche abusive o informali. Il Cile, infatti, è uno dei principali hub del commercio globale dell’abbigliamento di seconda mano. Le sue leggi più permissive e i costi di gestione ridotti lo rendono una destinazione comoda per l’invio di rifiuti tessili da tutto il mondo.

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Questo meccanismo coinvolge anche altri Paesi, come il Ghana, dove ogni settimana arrivano 15 milioni di vestiti usati. Solo una piccola parte riesce a essere venduta, il resto si accumula o finisce nelle fogne urbane. È un sistema che, nei fatti, esternalizza il problema dei rifiuti tessili dai Paesi consumatori a quelli in via di sviluppo, con pesanti ricadute ambientali e sociali.

Il fallimento del riciclo

Ma perché non riciclare questi capi, anziché inviarli al macero? La risposta è complessa. Molti abiti sono composti da fibre miste, bottoni, zip, stampe, etichette: tutto ciò rende il riciclo tecnicamente difficile e costoso. Solo una minima parte dei capi in materiali puri, come lana o cotone, può essere riciclata in nuovi filati. Il resto finisce per essere trasformato in stracci o imbottiture, o peggio, viene bruciato o smaltito in discarica.

In Europa, solo nel 2020, sono stati distrutti tra i 264.000 e i 594.000 capi nuovi, con un impatto ambientale equivalente a 5,6 milioni di tonnellate di CO₂: più o meno le emissioni nette annuali di un Paese come la Svezia.

Verso un cambio di rotta

Per contrastare questa spirale, l’Europa sta lavorando a una normativa più stringente sulla Responsabilità estesa del produttore (EPR). Il principio è semplice: chi immette sul mercato un capo di abbigliamento deve occuparsi anche della sua fine vita. In Italia, il Ministero dell’Ambiente ha avviato una consultazione pubblica su un decreto che prevede obblighi per la filiera tessile, dalle scarpe agli accessori, fino ai tessili per la casa.

Secondo Luca Campadello di Erion, sistema consortile specializzato nei rifiuti, è fondamentale che i produttori siano protagonisti nella gestione del fine vita, attraverso reti di raccolta e selezione capillari. Dall’anno prossimo, inoltre, in Europa sarà vietata la distruzione dei capi invenduti e verrà imposto l’obbligo di tracciabilità.

Il ruolo dei consumatori

Oltre ai produttori, anche i cittadini saranno coinvolti: ogni capo avrà un ecocontributo, un sovrapprezzo che rifletterà i costi ambientali e di smaltimento. Chi acquista tanto e spesso, pagherà di più. L’obiettivo è incentivare comportamenti più sostenibili: acquistare meno, scegliere meglio, allungare la vita dei propri vestiti.

L’Italia, grazie a una consolidata rete di selezionatori, è già un’eccellenza nel riuso: circa il 60% dei capi raccolti è rivendibile come seconda mano. Tuttavia, finché non si affronteranno anche i nodi del riciclo delle fibre miste e dello smaltimento a livello globale, discariche come quella di Atacama continueranno a crescere, trasformando il problema dei nostri armadi in una tragedia planetaria.

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