Quanto suolo ci costa il nostro modo di mangiare?
Se il mondo adottasse una dieta interamente vegetale, l’umanità potrebbe ridurre l’uso globale di suolo agricolo di circa il 75%.
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MMetà della superficie terrestre abitabile è oggi dedicata all’agricoltura. E di questa metà, la maggior parte non serve a nutrire direttamente le persone, ma ad allevare animali per carne e latticini. È un dato poco intuitivo: non è tanto quello che mangiamo “nel piatto”, ma il mangime che diamo agli animali a determinare l’enorme impronta del nostro sistema alimentare.
Secondo una delle analisi più complete disponibili, se il mondo adottasse una dieta interamente vegetale, l’umanità potrebbe ridurre l’uso globale di suolo agricolo di circa il 75%: da 4,1 a 1 miliardo di ettari. In pratica, verrebbe liberata un’area pari a Nord America + Brasile messi insieme. E la cosa sorprendente è che questo sarebbe possibile pur continuando a sfamare tutti con una dieta nutrizionalmente adeguata.
Mezzo pianeta nei campi: perché carne e latte “occupano” tanta terra
L’espansione di terre agricole è oggi il principale motore di deforestazione e perdita di biodiversità. La ragione sta tutta nella “inefficienza spaziale” della carne, soprattutto di manzo e agnello.
- Per produrre una singola chilocaloria da manzo o agnello serve 50–100 volte più terra rispetto a un’alternativa vegetale.
- Lo stesso vale per le proteine: ottenere 1 grammo di proteine dalla carne bovina richiede fino a 100 volte più superficie rispetto a piselli o tofu.
Il risultato è che circa l’80% di tutte le terre agricole (pascoli + campi coltivati a mangime) è oggi dedicato a carne e latticini, pur fornendo solo una quota minoritaria delle calorie globali. I pascoli occupano vastissime superfici, equivalenti a tutta l’America, dall’Alaska alla Terra del Fuoco.

È vero che circa i due terzi di questi pascoli sono terreni marginali dove non si potrebbero coltivare cereali o ortaggi. Ma proprio per questo, se riducessimo il peso dell’allevamento, potremmo lasciare tornare foreste, savane ed ecosistemi naturali, con enormi benefici per biodiversità e stoccaggio di carbonio.
Una dieta vegetale ridurrebbe del 75% l’uso globale di suolo agricolo
L’analisi di Poore e Nemecek, una delle meta-analisi più ampie sui sistemi alimentari globali, mostra cosa succederebbe se l’intera popolazione mondiale passasse a una dieta vegana.
- La superficie agricola totale passerebbe da 4,1 miliardi di ettari a circa 1 miliardo.
- La riduzione principale deriverebbe dalla scomparsa dei pascoli e dal forte calo dei terreni destinati alla produzione di mangimi.
- Al contrario di quanto si potrebbe pensare, anche la superficie coltivata a campi (cropland) diminuirebbe: più legumi e cereali per consumo umano, meno mais, soia e grano per nutrire gli animali.
Secondo queste simulazioni, è possibile sfamare tutti su croplands già esistenti, a patto di spostare la dieta verso alimenti vegetali. Non è quindi solo una questione etica o climatica, ma anche di efficienza nell’uso delle risorse.

Non serve essere tutti vegani: rinunciare a manzo e latticini fa già la differenza
Il massimo potenziale di risparmio di suolo arriva con una dieta completamente vegetale, ma lo studio sottolinea un punto chiave: non tutte le riduzioni di consumo hanno lo stesso impatto.
- Tagliare manzo, agnello e latticini libera moltissima terra, perché sono proprio questi prodotti ad avere l’impronta maggiore in termini di pascoli e mangimi.
- Sostituirli con pollo, uova, pesce o direttamente alimenti vegetali riduce in modo drastico l’uso di suolo, molto più che eliminare semplicemente pollo o pesce dalla dieta.
In pratica, anche senza un veganismo totale, un forte calo del consumo di bovini e latticini permetterebbe già riduzioni enormi di uso del suolo, con relativi benefici per clima e biodiversità.
Cereali e soia: produciamo tanto, ma non lo mangiamo noi
Per capire perché una dieta più vegetale richiede meno terra coltivata, serve guardare a come usiamo oggi le nostre colture. Nel caso dei cereali (grano, mais, riso, orzo, avena…) solo il 48% viene consumato direttamente dagli esseri umani: il 41% finisce come mangime per animali e l’11% viene usato per biofuel e altri usi industriali.
In molti Paesi ricchi, la quota destinata all’alimentazione umana è ancora più bassa: in gran parte d’Europa è meno di un terzo e negli Stati Uniti arriva appena al 10% della produzione di cereali. Il resto va soprattutto ad alimentare l’allevamento intensivo.
Lo stesso vale per la soia: solo circa il 7% viene usato per alimenti diretti come tofu, tempeh, bevande vegetali, mentre la parte dominante, in termini di valore economico, è legata a farina di soia per mangimi e olio, spesso per usi industriali o energetici.
Cosa guadagneremmo: clima, biodiversità e sicurezza alimentare
Una riduzione del 75% dell’uso di suolo agricolo non è un tecnicismo: si tradurrebbe in spazio reale restituito alla natura e a funzioni ecosistemiche cruciali.
- Clima: foreste, praterie e zone umide che tornano a occupare spazi oggi destinati a pascolo e mangimi potrebbero assorbire enormi quantità di CO₂. Alcuni studi parlano di un “costo opportunità” del suolo agricolo paragonabile a diverse decine di anni di emissioni attuali.
- Biodiversità: la conversione di habitat naturali in campi e pascoli è il principale fattore di estinzione. Ridurre l’impronta agricola significa aprire la strada a corridoi ecologici, rifugi per specie minacciate, ripristino di ecosistemi complessi.

- Acqua e suolo: meno allevamento intensivo e meno monocolture da mangime riducono pressione sulle risorse idriche, erosione, inquinamento da fertilizzanti e pesticidi.
- Sicurezza alimentare: usare le colture per nutrire direttamente le persone, invece che gli animali, rende il sistema più resiliente alle crisi e riduce la competizione tra “cibo nel piatto” e “carburante nel serbatoio”.
Una transizione verso diete più vegetali non è solo una scelta individuale, ma un potente strumento di politica ambientale e sanitaria. I dati mostrano che, sul fronte dell’uso del suolo, poche decisioni collettive avrebbero un impatto così grande come ripensare il nostro modo di mangiare. E la buona notizia è che molte di queste decisioni cominciano dal prossimo pasto.